Pat, Gluck e altre storie
il nuovo libro di Antonio Ridolfo (nicosiano)

(capitolo)
UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA

…ma mille sicuramente sì! Quand'ero bambino, aprivo la finestra della mia camera un bel mattino, subito dopo la metà di Marzo, ed eccoti tutto un frullar d'ali e un vorticoso andirivieni di rondini, dal cielo verso il cornicione, fatto con coppi, di casa mia, della casa di fronte, di tutti gli antichi terratetto della via: erano cominciati i lavori di restauro dei vecchi nidi, rimasti vuoti e freddi per lunghi mesi.

Rondini a centinaia, arrivate all'improvviso, dopo un lungo viaggio. Il Maestro ci raccontava che venivano da Paesi lontani -dall'Africa- e che percorrevano migliaia di chilometri. Noi increduli: «ma come fanno? sono piccoline, pesano sì e no venti grammi!» obiettavamo al Maestro e poi «ma come ritrovano la strada senza bussola?, e quando attraversano il mare dove si riposano?, e come fanno a ritrovare il nostro Paese sperso qua sui monti, e ciascuno il proprio nido lasciato alla partenza l'anno prima?» Il povero Maestro cercava di rispondere a tutte le nostre domande. Io pensavo al loro scarso grammo di cervello e a come faceva a contenere tutte quelle abilità!
Portavano nel becco pagliuzze, fango o piume e si alternavano in due in ogni nido, arrivavano veloci ma azionavano sempre in tempo i freni.
Le avrei guardate ore, ma toccava far presto e correre a Scuola. «Mamà, oggi non voglio il cappotto». « Ma che dici, fa freddo!». «No mamà è primavera, sono tornate le rondini! »

Poi, per strada, in verità sentivo freddo con solo il maglione ed i calzoni corti; ma si vede che le rondini avevano nostalgia del mio Paese ed avevano anticipato il viaggio.
A Scuola a fare tutti a gara a dare la notizia al Maestro, ed io: «ma oggi non avranno, poverine, ancora freddo?» E lui ci raccontò una storia, o forse una parabola - allora usava andare per parabole per educare gli alunni -: parlava di un giovane scapestrato che aveva bruciato nel vizio ogni suo avere, ma che non trovò, ahimè, un padre pronto a sacrificare il vitello grasso e perciò si ridusse povero in canna. Gli rimaneva solamente il cappotto che indossava.
Andando disperato per la strada, vide volare in aria una rondine. Subito pensò: è già primavera, non mi serve più il cappotto! Così se lo sfilò e corse a venderlo. Ma il giorno dopo prese a nevicare, si sa sono gli scherzi di Marzo, ed il giovane trovò a terra la rondine stecchita dal gelo.
Lui, stolto, anziché prendersela con se stesso, dette la colpa alla povera rondine: «maledetta, oltre che te stessa, hai rovinato anche me!»
Il mio Maestro era intelligente, non tirava mai lui le conclusioni, non pretendeva di farci la morale e di indicarci il giusto e l'ingiusto, si limitava a lanciare il seme: ai suoi alunni il compito di accoglierlo e metterlo a fruttare.
Io quel giorno, mentre ripensavo alla favola appena ascoltata, continuavo a guardare fuori dalla finestra e a pregare che non andasse via il sole.
Le rondini sfrecciavano nel cielo tutta l'estate in cerca del loro cibo: mosche, zanzare, libellule ed altri insetti volatili.

Capaci di manovre acrobatiche, grazie alla coda a forbice e alle grandi ali, non lasciavano scampo agli insetti, perciò potevano allevare i loro piccoli, quattro o cinque ogni covata, con proteine a volontà: in venti giorni raggiungevano il massimo sviluppo, assomigliando ai genitori, salvo però nel volo.
Purtroppo, ora, nelle nostre città moderne vetro e cemento, sono scomparse –pochi esemplari nei centri storici-, così noi possiamo allevare, indisturbati, miliardi di zanzare.
Per giorni i genitori facevano da istruttore, cercavano di incoraggiarli a lasciare il nido, a prendere il volo. Poi iniziava il più coraggioso dei fratelli, imitato in seguito dagli altri. Noi bambini seguivamo ansiosi queste manovre, perché, ogni tanto, qualche piccolo, forse per lo spavento di trovarsi in aria o per l'emozione, precipitava goffamente in terra. Non era più in grado di sollevarsi in volo -a terra sono goffe anche le rondini adulte, hanno le gambe corte-, i genitori lanciavano grida disperate, incapaci di portare soccorso. Allora il più svelto tra noi correva a prenderlo: era una impresa, certo non poteva volare ma saltellare sì, eccome! Una volta riusciti ad afferrarlo, si teneva delicatamente tra le due mani chiuse e poi si cercava un posto in alto per lanciarlo in aria e dargli così il tempo di prendere il volo.
Ne approfittavamo, prima di lanciarlo, per osservarlo da vicino, per ammirare il suo candido petto in contrasto con il blu metallico del restante piumaggio, la sua lunga coda, il becco grigio e la sua bocca -gialla- spalancata nel grido spaventato.
Andando in campagna le trovavo anche lì. Facevano i nidi sotto i cornicioni dei tetti delle stalle e della masseria e alcune anche dentro il grande pagliaio: entravano ed uscivano a cento all'ora da una finestrina.
Da sempre senza nemici, rispettate dall'uomo poiché non recano offesa ai loro raccolti come altre specie, hanno prosperato da millenni, amate dagli dei greci e sacre non ricordo a chi tra loro.
Per sei mesi all'anno regnavano incontrastate.

Faceva loro compagnia una piccola colonia di piccioni. Avevano i nidi dentro fori profondi, di forma quadra o rettangolare, praticati, a distanze regolari, sulle facciate dei palazzi antichi, giù nella Piazza, sotto casa mia - da bambino credevo che fossero stati pensati proprio allo scopo. Poi, più tardi, constatai, osservando un edificio in restauro, che servivano per alloggiarvi i pali del ponteggio, costruito interamente in legno -sconosciuti i tubi innocenti-, così capii che erano inquilini abusivi.
Non amavo particolarmente i colombi: non volteggiavano maestosi in aria, se ne stavano, a me sembrava, pigri sui cornicioni, limitandosi a tubare. Non era necessario limitarne il numero, nessuno gli forniva il cibo, dovevano arrangiarsi da soli.
In campagna scorrazzavano stormi di passeri. Ricordo i miei cugini fare razzia dei loro piccoli nei nidi: mi assicuravano che erano buoni da leccarsi i baffi. Io non li approvavo e ne chiedevo un paio vivi, nella speranza di salvarli. Povero illuso! Non erano autonomi come i pulcini in grado di nutrirsi appena fuori dall'uovo, ma avevano bisogno della loro mamma. Goffi i miei tentativi di imitare i loro genitori, nutrendoli con vermi o piccoli semi. Dopo un paio di giorni mi toccava, piangendo, seppellirli.

Chi è stato “tenerone” da bambino è destinato a restarlo per la vita: continuiamo a scuotere la tovaglia da tavola fuori dalla porta verso il giardino, per offrire le briciole agli ospiti alati. Sembra che i passerotti stiano di guardia: dopo pochi secondi tre o quattro planano per banchettare. Quest'estate, per alcuni giorni, siamo stati testimoni di una scena simpaticissima: scossa la tovaglia, un passerotto si staccava dall'ulivo più vicino e, lanciando un verso di richiamo, cominciava a picchiettare a terra, come vedevo fare alla chioccia da bambino. Subito dopo, un secondo passero volava giù dall'ulivo e cominciava a beccare le briciole, ma ecco che il primo gli si avvicinava con una briciola in bocca, lui spalancava la sua ed ingoiava il boccone. Insomma già autonomo, preferiva, complice l'amore materno, continuare a farsi imbeccare: ridendo lo abbiamo soprannominato il passero “bamboccione”.
Tornando alla mia fanciullezza, devo confessare che anch'io non mi sono sottratto alla un po' crudele abitudine di accorciare ali e coda ad una taccola per impedirle di volare, nell'illusione di poterla ammaestrare: le taccole, come tutti i corvidi, sono all'apice della specie per acutezza ed intelligenza e qualcuno riesce a fare apprendere, a qualche esemplare, certi comportamenti.
Io, la mia, la tenevo libera nella fucina di mio padre, in quell'antro affumicato, tra ferro e carbon fossile - e meno male che era nera così non si notava lo sporco! Un ragazzo l'aveva rubata in un nido e me l'aveva regalata. Fortunatamente rimase in vita fino a quando, rinnovate le penne, fu in grado di volare e riconquistare la libertà.

Quando vedevamo volteggiare in aria uno stormo di taccole, lanciando i loro striduli richiami, pensavamo che invocassero la pioggia.
Fin'ora in queste pagine ho ricordato le specie più diffuse e, a me bambino, più simpatiche,ma per tutta onestà debbo accennare ad altre due specie, fortunatamente meno diffuse ma anche malviste: il nibbio e la civetta.
Il primo, volteggiando su nel cielo con le sue grandi ali, proiettava giù la sua ombra, creando lo scompiglio ed il fuggi fuggi tra gli animali da cortile della masseria, per poi piombare, lui grande e grosso, vigliaccamente a ghermire il più indifeso, perciò da noi temuto.
L'altra, malvista a torto e per sciocca superstizione. Sentendo nella notte il suo richiamo, rimanevo sveglio: si diceva che annunciasse l'arrivo della laida vecchia con la falce in qualche casa ed io tremavo per il mio amato nonno Antonio che era il più anziano.
Verso metà Settembre le rondini iniziavano a partire ed io mi rattristavo, voleva anche dire che le vacanze estive volgevano al termine e che la Scuola stava per ricominciare.
Pazienza, poco male, a quell'età s'era sicuri e fiduciosi che prima o poi sarebbe tornato Marzo, anzi infiniti Marzo, portandoci le rondini assieme ai primi fiori e s'era anche meno egoisti: eravamo contenti al pensiero che in altre parti del Mondo, in Paesi lontani dell'Africa, altri bambini, uguali a noi, sarebbero stati felici nel rivederle sfrecciare nei loro cieli.


Antonio Ridolfo

(capitolo gentilmente concesso dall'autore per la pubblicazione su nicosianews.blogspotcom    e-mail del 23/12/2011)
Antonio Ridolfo, siciliano di nascita (Nicosia - EN - 1944) toscano di adozione (dal 1963), vive a Follonica (GR), dove ha insegnato tecnologia ed educazione tecnica all'IPSIA e alla Scuola Media, per quarantatre anni.
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Sempre dello stesso autore proponiamo su autorizzazione, un'altro breve racconto - La trebbiatura del grano - tratto dalla sua prima pubblicazione "Le mule del barone" del 2010

5 - LA "GUASTEDDA" (la focaccia)

parte ^ - LA TREBBIATURA DEL GRANO

Ci alzavamo presto, mio nonno ed io bambino, per recarci in campagna, in contrada Serra, a quattro chilometri dalla nostra casa di via Salita Salomone. Ci pensava il gallo a svegliarci, tutte le mattine, cantando nel suo harem, sotto la nostra camera da letto.
Dormivamo assieme io ed il mio nonno, in un grande letto, alto su trespoli di ferro, coperti da tavole. Il materasso era di crine vegetale (quello della gente ricca era di lana).
La stanza, enorme, sette metri per sette, alta quasi quattro metri, con il tetto a volta impreziosito con stucchi di gesso, era quasi nuda:oltre al letto, due sedie di legno impagliate, una cassa-panca e il ritratto dei nonni, giovani, ad una parete.
D'inverno era una ghiacciaia; il paese è in montagna a settecentocinquanta metri di altitudine e, quando dovevo alzarmi dal letto per andare a Scuola, erano guai. Andavo a piedi a Scuola, in pantaloncini corti, anche quando fuori c'era la neve, che durava, ghiacciata, settimane.
Ma ora eravamo a luglio, la Scuola era ormai chiusa. Per questo accompagnavo il nonno in campagna. Mi piaceva tanto, perciò saltavo dal letto giù per primo.
Andavamo a piedi in campagna. La strada, piana, asfaltata, le auto veramente rare, si snodava sfiorando molte masserie, dove la vita era già ripresa in pieno: bovini al pascolo, galline e tacchini a razzolare nelle concimaie, i mietitori di grano all'opera con le falci scintillanti al sole nascente, l'abbaiare dei cani, il raglio di un somaro.

Felice quando un contadino a cavallo di un'asina o di una mula ci raggiungeva: "fei chiane u carusu" ed il nonno mi aiutava a montare in groppa, dietro al contadino. Mi sentivo un "cao-boi", come quelli ammirati sui cartelloni del cinema Cannata.
Camminavamo affiancati. Il nonno coi suoi sessantacinqu'anni, segaligno e dritto come un fuso, teneva bene il passo della cavalcatura.
Arrivati, smontavo. Il nonno apriva la porta della casetta con i muri in pietra a secco, appendeva ad un chiodo il tascapane con le vivande per la giornata, si cambiava e prendeva la falce dentata.
Entravamo nel campo di grano. Osservavo il nonno che si metteva all'opera:con la mano sinistra afferrava le piante di grano, piegate dalle spighe gravide di chicchi, le serrava nel pugno e con la falce le segava, quasi alla base, perciò se ne stava tutto curvo. Posava a terra le piantine morte e tornava all'opra. Ne accatastava un fascio di piantine, poi le legava con corde fatte di giunchi, rubati al letto del "Salà" (Salso), per formare un covone. Così fino al tramonto! Sempre curvo, con il sole sempre più alto e sempre più impietoso.
Io, dopo un po'. mi annoiavo. Giocavo, da solo, a nascondino tra il grano.'le spighe mi sovrastavano più di mezzo metro. Poi mi divertivo, facendo dei rumori, a zittire il coro delle cicale: per pochi secondi silenzio assoluto, solo il segare della falce, poi il frinire, riprendeva più forte.
Tendevo però sempre l'orecchio al richiamo del nonno :mi chiedeva da bere. Traevo l'acqua fresca dal pozzo, riempivo il "cuccumettu"di argilla e glielo porgevo. Poi si sentiva in lonta-nanza, il suono delle campane di mezzogiorno.

Il nonno sospendeva il lavoro. Io prendevo il tascapane. Ci sedevamo all'ombra del mandorlo e mangiavamo il pane fatto in casa dalla mia mamma, con il formaggio vaccino, la cipolla ed il pomodoro maturo. Il nonno beveva un sorso di vino dalla borraccia, io l'acqua fresca del pozzo. Dopo il nonno tornava al lavoro ed io andavo in cerca di nidi di uccelli, sugli alberi della vigna vecchia, non per rubare i piccoli, ma perché mi piaceva vedere i genitori volare avanti ed indietro portando nel becco il cibo ai figli, sempre "allupati".
Poco dopo il suono dell'Ave Maria, il nonno cercava di tirarsi su, di drizzare la colonna vertebrale, riponeva la falce dentro la casetta e si cambiava i vestiti.
Riprendevamo la strada del ritorno. Io, sperando sempre in un "passaggio", il nonno, affaticato, a passo lento.
A casa ci aspettava la minestra calda, con le fave. Poi subito a letto (non era proprio aria di racconti di America o di guerra). Si dormiva a mattone, fino all'alba, quando ricominciava un altro giorno. Il lavoro di mietitura durava alcuni giorni, finché il terreno assomigliava ad un campo di guerra dopo una battaglia: con i covoni stesi al posto dei soldati.
Il sole di luglio, in pochi giorni, seccava anche le pietre, oltre ai covoni. Così giungeva l'ora della trebbiatura. Il nonno, con fatica, portava, ad uno ad uno, i covoni sull'aia: uno spiazzo in terra battuta esposto ai quattro venti. Li stendeva l'uno accanto all'altro, formando un grande cerchio.
Il nonno non possedeva ammali, perciò chiedeva aiuto al con-tadino accanto, che, generoso, arrivava con la sua coppia di buoi:due enormi e placidi animali, con gli occhi grandi, sporgenti, forse un po' tristi, insomma "occhi da bove". Mi piacevano i buoi! Anche forse perché li pensavo infelici per la loro vita sacrificata solo al lavoro: mai un palpito di cuore per le compagne accanto nella stalla, guardando, senza capire, i giovani torelli innamorati fìssi e sempre "pronti" come mandrilli.

Arrivavano già aggiogati i buoi, con il giogo di legno, trascinando un grosso masso.
Dopo il pranzo, nell'ora più calda del giorno, il contadino portava i buoi sull'aia, li faceva montare sui covoni e li guidava, placidamente, in tondo, da dietro il grande masso trascinato, con la catena, dal giogo. Si andava avanti almeno tre ore. Gli otto zoccoli e la pesante pietra spezzavano il gambo del grano, diventato, per il sole, come vetro, riducendolo a paglia; schiacciavano le spighe e chicchi, biondi e duri, schizzavano fuori, liberandosi dalla loro camicia di forza: la pula.
Ogni tanto uno dei bovi tentava di brucare un ciuffo di spighe con la bocca, ma invano: una museruola di rete metallica chiudeva le sue froge.
Il nonno, con in mano il tridente di legno, riordinava il mucchio, riportando all'obbedienza i mazzi di spighe che, per paura, cercavano di sottrarsi al grande masso, come l'Ulisse con Polifemo.
Io osservavo dall'ombra di un pero, pronto al richiamo di "un po' di eugua" del contadino o del nonno, arsi dalla sete. Vedevo in lontananza un'altra aia, più grande, dove i buoi venivano aiutati dagli zoccoli ferrati di una mula che trottava in tondo, al centro, trattenuta con la corda dal giovane figlio del massaro.
Quando i covoni erano ridotti in poltiglia, il contadino guidava i buoi fuori dall'aia e li riportava nella stalla, finalmente all'ombra.
Sull'aia paglia, grano e pula mescolati assieme. Cominciava l'attesa del vento, immobili come il veliero, con la bonaccia, in mezzo al mare. Quando Eolo finalmente si svegliava, il nonno afferrava il tridente e si metteva pazientemente all'opra: infilava i denti dell'attrezzo nella poltiglia e poi lanciava in alto. I chicchi, più pesanti, ricascavano in verticale, la paglia, più leggera veniva trascinata dal vento sul ciglio dell'aia, dove si accumulava, la pula, quasi impalpabile, si disperdeva sull'erba secca lontana..
Vento permettendo, questo lavoro durava fin quasi al tramonto, quando finalmente il frutto di tanto sudore, era ormai visibile al centro dell'aia: un bei mucchio di grano, biondo miele, mescolato ancora con pagliuzze. Seguiva quindi la vagliatura e poi il grano, ormai privo di impurità, veniva insaccato.
Il contadino prestava la mula al nonno per trasportare i sacchi di frumento fino a casa, in paese. Pane e pasta, per la mia famiglia. erano assicurati per un intero anno.
Il nonno, poi, donava la paglia, da usare come foraggio, al contadino, per ripagarlo della sua bontà.
Ogni tanto ripenso a quel mondo con tanta nostalgia e provo tanto affetto ancora per il nonno.
Antonio Ridolfo