MARTIN
di Pippo Raspanti
(gentilmente concesso a Nicosia news)

Martin ogni giorno, prima dell'imbrunire, d'inverno e d’estate, in primavera ed in autunno, appariva nella piazza principale del paese e si collocava in un angolo ben preciso: sempre lo stesso.
Era cosi scontata la sua presenza che nessuno ci faceva più caso. Lui se ne stava lì ad osservare i presenti ed i passanti che su e giù passeggiavano in coppia o a gruppetti.
L'aspetto del povero uomo era inguardabile: il viso deturpato dal fuoco, un braccio quasi paralizzato, storpio di una gamba. Calzava i "zampitti" e vestiti di velluto di colore indefinito, sdruciti e rattoppati in più punti e indossava pure "u scappuccin" di lana grezza ed una coppola nera. Si reggeva con il supporto di un nodoso bastone: il suo scettro.
Guardava, osservava sempre da quel punto; non parlava con nessuno. Nessuno lo guardava. Stava li ed era come se non ci fosse.
Martin, era un guardiano di capre, un capraio che ogni mattina portava il suo piccolo gregge al pascolo. Stava tutto il giorno, tutti i giorni feste consacrate comprese con il sole e con la pioggia appresso alle sue capre con la sua andatura lenta e claudicante.
Le capre, animali vivacissimi e intelligenti, capivano che il loro pastore faticava a seguirle e se ne stavano raggruppate come a non voler affaticare ulteriormente quel povero uomo.
Nel tardo pomeriggio Martin e le sue capre tornavano all'ovile situato in una grotta della "Torretta". La grotta era il rifugio delle capre e la casa di Martin che, in un angolo, aveva il pagliericcio e poche misere suppellettili: era un moderno polifemo.
Governate le sue capre, consumata la frugalissima cena, rinchiusa l'imboccatura della spelonca, Martin come ogni sera prima che il sole si perdesse dietro le montagne saliva le tortuose vie che lo portavano in piazza. Poi, dopo qualche ora, dopo aver osservato tutto e tutti, senza avere detto una parola, senza averne ricevuta alcuna riprendeva il cammino del ritorno verso la grotta dove ad attenderlo erano le sue capre. E mentre lentamente tornava pensava a quei poveri uomini che andavano su e
giù per la piazza che parlavano a voce alta, gesticolavano, si urtavano quasi irritati e furenti. Chissà forse la notte l'avrebbero passata in brevi dormi veglie, tra incubi e preoccupazioni.
È questa la sorte che spetta alle persone molto impegnate e convinte di essere al centro di tutto.
Aprì la scardinata porta della grotta le capre lo accolsero con un flebile belato; accese a "lumëricchia" e si stese sul pagliericcio. Morfeo lo accolse subito tra le sue braccia in un sonno ristoratore, il sonno dei semplici e dei mansueti.
Nicosia, 5 giugno 2009



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Racconto ……
…… Arrivati in cima, dopo una faticosa ascesa, si sedettero ansimando, sui gradini in pietra, davanti la Basilica di Santa Maria Maggiore.
Avevano percorso la via Francesco Salomone, via dedicata ad uno dei tredici eroi della disfida di Barletta, via Carlo V, piazza Ruggero II il normanno; quanta storia, quanta bellezza in quei luoghi magici.
Bizantini, Arabi. Normanni, Spagnoli, avevano calcato quelle vie portando cultura, civiltà, benessere.
Il loro corpo, le loro menti erano assalite da mille emozioni. Poi ancora un piccolo strappo ed ecco spuntare la chiesetta di San Nicolò “Le Petit” – il piccolo – modesta e austera, quasi disadorna, ma di una misticità unica. Infine, ancora un po’ di strada ed ecco la sommità del castello normanno in tutta la sua imponenza e magnificenza.
Dire che si ammira un panorama mozzafiato è alquanto riduttivo: Troina, Agira, Capizzi, Cerami, Gagliano Castelferrato, si stagliano in lontananza con le guglie della Cattedrale al cielo, con le solide mura dei palazzi che si toccano con mano.
Lontano, maestoso l’Etna che lo storico arabo Aziz-Ahmed chiamò Mongibello – in arabo mon-ghebel – monte dei monti.
La fortezza fu riedificata da Ruggero il normanno per presiedere i suoi possedimenti nel nord della Sicilia. Purtroppo il tempo e l’incuria, l’ignoranza e la insensibilità degli uomini l’hanno ridotta a poche pietre sbriciolate.
Unica testimonianza, ben conservata, il ponte, ad archi a sesto acuto, che serviva l’alloggiamento delle truppe, alla residenza reale.
Una grotta, dall’ingresso ampio attirò la loro curiosità, entrarono.
Era illuminata, in alto, da un’ampia fessura dove il sole penetrava come un dardo di fuoco. Intorno, le pareti erano scavate a modo di letti e sopra, al altezza d’uomo, alcuni graffiti rappresentanti scene di vita domestica, di caccia e di animali selvaggi.
Restarono ammirati, estasiati davanti a quelle figure appena accennate.
Non potranno fare a meno di pensare, tornare al passato e forse in quel momento, anche loro entreranno spiritualmente in quella atmosfera di sogno e di estasi e si sentiranno creature vissute in quel tempo.
Erano stanchi di fatica e di emozioni, si distesero su un giaciglio di morbida paglia, l’uno accanto all’altra. La mano di Lei accarezzò quella di Lui. La carezza si fece più intensa, le mani si strinsero sempre di più, con più forza. I loro occhi si incrociarono. I loro corpi si unirono in un abbraccio desiderato, voluto. ……..
Il sole mandava i suoi ultimi bagliori ormai flebili per l’imminente tramonto.
La sera stava calando e il freddo pungente li risvegliò da quel torpore e dal quel sogno.
Si alzarono, si misero in ordine e iniziarono la discesa, lentamente, verso il paese poco distante.
Entrarono in un bar, si sedettero, ordinarono dei dolci e caffè-latte. Si guardarono, si sfiorarono le mani, non una parola. I loro occhi esprimevano quello che nessuna parola poteva e sapeva dire. Lei diede un’occhiata all’orologio, era ora di andare.
Entrò in macchina, uno sguardo, un leggero dolce contatto di labbra. Lui in piedi seguì la macchina che si allontanava.
Non si videro più, mai più. Quel giorno rimase un bellissimo giorno. Indimenticabile ricordo.
Un poeta, non ricordo chi ha scritto: “Se nei ricordi non v’è rimpianto, in essi è la linfa inesauribile della vita”.

Nicosia, settembre 2008
Pippo Raspanti ©

Gentilmente concesso a "nicosianews" il 28/03/2009

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Racconti nicosiani e commenti vari
”Fradeo”
L’esistenza di un uomo emarginato



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Lo chiamavano così: “Fradeo” che forse, significa fratello. Nessuno, però, lo trattava da fratello, anzi. Tutti lo ignoravano fingevao di non vederlo, nessuno gli porgeva un cenno di saluto, ma forse Lui non voleva il saluto di alcuno.
Viveva ai margini, era un emarginato.
Di Lui si sapeva pochissimo: cosa facesse, dove dormisse, come e dove mangiasse. Quanti anni aveva? Aveva un’anagrafe? I servizi sociali erano latenti e quindi nessuno, proprio nessuno si interessava o sapeva qualcosa di “Fradeo”.
Ad una certa ora del pomeriggio, quando il sole ci lascia per portare calore ad altra gente, lo si vedeva nella piazza principale fermo, immobile, senza sguardo a fissare il nulla.
Indossava pantaloni di velluto, una camicia bianco-sporca, un “gilecco” da contadino e un paio di consunti scarponi.
Cosa pensava?
Provava sentimenti?
Gli interessava qualcosa?
Di colpo spariva dalla piazza, dove era andato? A trovare il suo amico, grande amico, unico amico, fratello e Padre al quale e solamente a Lui rivolgeva il suo pensiero e gli parlava senza profferire parola.
Lo andava a trovare nella navata di destra della Cattedrale.
Si fermava, impassibile, quasi non respirava, alzava gli occhi e li restava per ore.
Non distoglieva gli occhi dal Cristo in Croce e così iniziava un dialogo tra l’uomo e Dio, un dialogo misto in un silenzio surreale.
Ma “Fradeo” sapeva cosa dire al suo grande Amico, al suo Protettore, a suo fratello, al suo Dio.
È così ogni giorno, con il sole o con la pioggia. Un giorno “Fradeo” non si vide più, non lo vide più nessuno.
Non un necrologio, non un suono di campana, nessun funerale.
Così un giorno degli anni sessanta “Fradeo” se ne andò in silenzio, senza disturbare, in terra con il suo personaggio.
Non raccolse neppure le offerte delle “cartelle” che servono a pagare Caronte per il traghettamento nell’Aldilà .
Ora “Fradeo” sicuramente è là accanto al suo più grande Amico, al Padre della Provvidenza.
Il suo posto è quello dei prediletti.
Uno come “Fradeo” i francesi lo chiamano clochard, gli inglesi homless, gli italiani barbone.
Sono appellativi ironicamente dolci e quasi graziosi. Senza eufemismi “Fradeo” è tra quelle persone che la società perbenista e ipocrita non vede, non vuole vedere, ne nega l’esistenza per avere la coscienza tranquilla.
“Fradeo” è tra quelle persone che ci sono, ma non esistono e la società li uccide ignorandoli semplicemente.

Pippo Raspanti
settembre 2008


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SCUSATE ..... VADO DI FRETTA

di Pippo Raspanti
gentilmente concesso dall’autore a Nicosia news



Viviamo assediati dal particolare, viviamo a pezzi, frantumati. Abbiamo perduto la vita interiore. Viviamo per apparire npon per essere. Abbiamo perso la centralità della cultura umanistica. Cellulari e computer concorrono a farci perdere di vista il nostro "IO" nella sua interezza.
Comunichiamo in modo frenetico, senza usare più i sensi, senza vedere "l'altro" e senza toccare.
Infrangiamo così spazio e tempo con senso di onnipotenza fragili, dipendenti e condizionati dal mezzo.
La vita quotidiana non è più bella, solare fascinosa, ma con ritmi che ci imponiamo, è diventata la malattia del "vivere". Il desiderio universale è quello di capire questa vita che conduciamo e sarebbe ora di invertire la rotta. Come? Ritornando a noi stessi.
Gli animali appena sono stanchi si fermano, riposano. La nostra macchina non è attrezzata, nonostante il notevole adattamento, a vivere come facciamo noi, correndo come invasati, sempre di corsa in ogni azione della giornata.
Viviamo nello sgomento di non potercela fare. Spazio e tempo non sono più governabili, non sono più coordinate stabili e ordinate, ma sono divenute cose labili e sfuggenti.
Invece l'uomo ha bisogno di ordine e confronto attorno, ha bisogno di trovare la sua giusta dimensione. La sua casa è una scheggia impazzita senza ordine e senza orari, piena di tutto e nello stesso tempo vuota di armonia, serenità e tranquilità.
La città dell'uomo è uno spazio caotico, pressante, nemico dove nessuno trova un attimo per fermarsi, dove tutti si urtano, si spingono, correndo verso una inafferrabile meta. La frase che senti dire a tutti è: "vado di fretta".
E allora fermiamoci, facciamo un "passettino" indietro, meditiamo altrimenti, scomodando il Leopardi, saremmo costretti a dire: "Ahi pentirommi e spesso, ma sconsolato volgerommi indietro".

Pippo Raspanti